DECIMA PUNTATA

Succede, quindi, che mi ritrovo seduta su una panchina di ferro che sta sotto al portico e guardo, da distanza di sicurezza, questi pavoni colorati che sono molto più grandi di quanto uno si immagini.
Sento dei passi e mi volto per vedere arrivare l’Anziana Signora di prima, quella che ci ha fatto entrare in questa strana casa.
Insieme guardiamo per alcuni minuti questi bizzarri animali e poi lei rompe il silenzio:
“Ti ho portato una tazza di tè, cara, sono sicura che ti farà sentire meglio.”
Allora non sono la prima ad aver avuto bisogno di un po’ d’aria fresca dopo il colloquio con il Dottore! Confortante. Oppure no?
“Meravigliose creature, vero? Ne abbiamo sempre avute, almeno da quando ne ho memoria io.”
“Davvero? Ma quanto vivono?”
“Non saprei, dicono che vivano per circa dieci anni. Alcuni di questi che vedi ne hanno quasi nove, se ricordo bene.”
“Quindi fra un anno…?”
“Fra un anno cosa, mia cara?”
L’Anziana Signora spalanca gli occhi e mi guarda stupita, poi prosegue:
“I miei pavoni sono animali straordinari, sono esseri unici, diversi l’uno dall’altro. Credi davvero che io badi a quello che si dice, a quello che sta scritto sui libri? Io mi prenderò cura di loro ogni giorno, come ho sempre fatto, senza contare gli anni che passano e senza avere paura di quello che succederà domani perché, lascia che ti sveli un segreto mia cara, il domani non esiste e di sicuro non vale la pena avere paura di qualcosa che non esiste, vero?
Oggi, ora, io e te siamo qua, sedute su questa panchina (a cui di sicuro serve un morbido cuscino perché è troppo scomoda) a bere un po’ di tè caldo e a godere dei colori della natura. Non c’è nient’altro che abbia importanza, non credi?”

Mi ci vuole un sorso di questa terapeutica bevanda bollente, e poi:
“Io non saprei, davvero. Vorrei che fosse così ma, sa, ho un po’ paura di quello che potrà succedere quando ci alzeremo da questa panchina (a cui serve un cuscino, ha ragione) e io dovrò tornare dentro a sentire come sarà la mia vita d'ora in poi.”
“Cara, sei qua a fare una visita da un semplice medico, non una seduta da una chiromante per farti leggere il futuro! Qualunque cosa ti verrà detta in quello studio sarà solo una supposizione, una congettura frutto, probabilmente, di statistiche ed esperienze passate. Non lasciare mai che ti dicano come sarà il tuo domani perché, mia cara, nessuno lo può sapere.”
Allora chiudo gli occhi, faccio un respiro profondo e credo, con tutta me stessa, a queste parole pronunciate da un’Anziana Signora che alleva pavoni e vive con un tizio che ama gli insetti.
A questo punto immagino che dovrei avere il coraggio di rientrare dal Mio Ometto e dal Mio Dottore e affrontare tutto quello che, di solito, segue alla diagnosi: esami più specifici, piano terapeutico e suggerimenti vari per uno stile di vita migliore.
In realtà mi manca qualcosa: non ha a che fare con il futuro, incerto e confuso, che mi aspetta e non non c’entra nemmeno con il mio presente, doloroso e difficile.
Quello che mi manca è legato al passato: io voglio sapere come e perché è entrato un insetto nel mio sangue! (in realtà di quelle bestioline ne ho milioni, hanno formato delle colonie e si riproducono come conigli, lo so, lo so.)
Ma non lo posso chiedere all’Anziana Signora perché sembra ferrata solo sul tema: “Non c’è futuro, cogli l’attimo” e non credo che nell’osservazione dei pavoni ci siano tutte le risposte che voglio adesso, quindi, direi che sono finalmente pronta per rientrare e chiedere:
“Scusi ma perché mi sono ammalata? E’ colpa mia? Dove ho sbagliato?”
“Non si tratta di avere colpe, è più una questione di momento, anzi, di perdita del momento.”
Il Mio Ometto annuisce mentre vengono pronunciate queste incomprensibili parole.

“Siediti un attimo, il Dottore mi ha spiegato alcune cose mentri eri fuori.”

NONA PUNTATA

Credo di essere rimasta a bocca aperta e di aver trattenuto il fiato per svariati minuti per poi darmi una sana scrollata:
“Lei mi sta dicendo che questa bestia mi ha punto e che ora sto male?”
“No, no, assolutamente no!”
Menomale, di nuovo.
“Questo insetto lei ce l’ha nel sangue, bè a dire il vero oramai ne avrà milioni ma questi sono solo dettagli, non perdiamo di vista il vero problema.”
Ah certo perché il vero problema non è avere milioni di cloni di questa insulsa bestia ripugnante che mi scorrono nel sangue in questo momento, il problema è un altro, scema io che non ci ho pensato.
“Quello di cui stiamo parlando è la malattia che ne deriva, la patologia di cui soffre lei e per la quale è venuta da me.”
Allora mi sa che è arrivato il momento di farmi tutto un coraggio e di ascoltare quello che ha da dirmi questo tizio col camice da gelataio che guarda con occhi innamorati la fotografia di un insetto brutto e schifoso.
“Innanzitutto il nome, è buona educazione fare le presentazioni: la sua malattia si chiama U.C.T.D.”
“Uccittiddì? E cosa vuol dire?”
“E’ un acronimo, una sigla.”
So cos’è un acronimo e personalmente li odio. (ma non glielo dico, non vorrei mostrarmi troppo intollerante oltre alla faccia schifata che ho già fatto alla vista dell’insetto malefico)
“Bene, abbiamo un nome, è un inizio: se non altro significa che è una malattia conosciuta, studiata e che probabilmente c’è una cura. Vero?”
Chiede il Mio Ometto Speranzoso.
“Io userei più il termine “trattabile” che “curabile”, rende più l’idea della cronicità della patologia. Ve l’avevo detto che è cronica, vero?”
Sì, sì, grazie e magari se non me lo ripete ogni due secondi è anche meglio.
“Sì questo l’avevamo capito, ma ci sono tante altre cose da chiarire. Per esempio: cosa vuol dire esattamente U.C.T.D.?”
Il Mio Ometto si fa intraprendente.
“Dipende.”
Questa me la deve spiegare.
Anzi no, ad alta voce: “Scusi sa ma questa me la deve spiegare!”
“Il significato cambia a seconda della condizione del paziente e dello stadio della malattia. Nel suo caso direi: Unica Cura Tanta Dedizione. Ma mi creda, ci sono persone che arrivano qui già in fase: Urge Chiedere Telefonata Dio e non possiamo fare poi molto.”
Quindi mi è andata bene, giusto?
“Non so, faccia lei. Direi piuttosto che è il caso di passare subito alla fase successiva: Una Continua Trafila Diagnostica, per avere un quadro più preciso della situazione e per ricavare una conta delle colonie.”
Un brivido di orrore mi scorre addosso: ma ti pare che voglio sapere quante bestie pelose e schifose mi stanno infestando il sangue? Ma ti pare?
“Scusatemi ma ho bisogno di un po’ d’aria fresca.”
Mi manca il coraggio, lo ammetto, e poi ci sono dei pavoni fuori in giardino che in questo momento mi fanno meno paura, ma molta meno paura, di quella bestia che, apparentemente, mi scorre nelle vene.

OTTAVA PUNTATA

Non fa alcun cenno, è evidente che non capisce.
“Forse è meglio se ricominciamo da capo, magari con qualche termine più preciso, più tecnico.”
L’Ometto Pignoletto seduto accanto a me ha parlato e precisato, mi sa che ci eravamo un po’ persi.
“Va bene, se volete possiamo ripartire dall’inizio: mi parli della sua malattia.”
Ci risiamo: me l’ha chiesto di nuovo e stavolta devo fare bella figura, è la mia grande occasione, dio che ansia da prestazione.
“Certo, la mia malattia, come la chiama lei, anzi adesso che ci penso credo che ci sia un errore di fondo, un problema alla base: perché stiamo parlando della mia malattia? Siamo già sicuri che sia una malattia? A me pare più una momentanea indisposizione, ecco sì: un malessere passeggero e del tutto risolvibile. Io sono venuta qui per risolvere questa situazione: vorrei che lei mi desse qualcosa per togliermi di dosso questa cosa che ho e che non riesco a mandare via.
Ormai condiziona ogni mia mossa, tutto è più difficile e più faticoso; le bottiglie dell’acqua non si fanno aprire, le scale sono sempre più alte e le tapparelle, quelle stramaledette tapparelle, non si vogliono più alzare, ma perché? Io non so come altro spiegarlo, posso fare un esempio forse?”
Guardo avanti, a lato e aspetto un cenno di conferma ma nessuno dei miei due interlocutori si smuove di un millimetro: grazie per l’aiuto, ora sì che mi sento a mio agio.
Fa niente:
“Comunque, ecco l’esempio: vado a fare una passeggiata e questa cosa mi segue, sta sempre con me, me la sento dentro e allora anche due passi mi sembrano mille e la fatica mi schiaccia perché ho dentro questa cosa, anzi no, ce l’ho proprio addosso e a volte vorrei poterla lasciare a casa e andare a farmi una corsa da qualche parte, libera da questo peso, da questa bestia, da questa zecca che ho appiccicata addosso da qualche mese!”
“Zecca?”
L’Ometto guarda me, guarda il Mio Dottore ed entrambi abbiamo capito.
Epifania time.
“E’ per questo che siamo qui? Perché ha una zecca addosso? E’ per questo motivo che ci hanno mandato da un entomologo?”
“No! Non è una zecca!”
Menomale.
“E’ un altro tipo di insetto. Aspettate un attimo, cerco una foto e ve la mostro.”



SETTIMA PUNTATA

E così noi parliamo, dialoghiamo, forse per un’ora, forse di più. Io e e il mio Dottore ci diciamo tante cose, lui usa soprattutto queste espressioni:
“E’ naturale, certo.”
Oppure:
“Me lo aspettavo.”
E anche:
“Succede sempre così.”
Così io gli racconto i fatti miei: la frizione dell’auto che improvvisamente è durissima ma che nessun meccanico vuole riparare, le serrature di casa bloccate ogni mattina, il mio sonnambulismo (dev’essere l’unica spiegazione alla stanchezza che ho la mattina) e tutto quello che in questi ultimi mesi è cambiato intorno a me.
Più lui annuisce e più io mi sento a mio agio e racconto, mentre Quel Tizio Serioso seduto accanto a me non si capacita di quello che sta succedendo: ho davvero trovato qualcuno che capisce quello che dico.
Ad un certo punto decido pure di buttare il carico e così, dopo un gran sospirone, glielo dico:
“Io ogni tanto devo fare questi minipisoli oppure mi spengo.”

E aspetto.
Aspetto.
Aspetto.
Forse non avrei dovuto dirglielo.
Forse era meglio non esagerare.
Ora ritratto.
Ora interviene il mio Amore e mi salva.


Invece il mio Dottore alza la testa dagli appunti e mi dice:
“Mi spiace. Immagino sia difficile vivere così.”

Ho creduto di non riuscire a trattenere le lacrime e di alzarmi dalla sedia per correre dietro alla scrivania ed abbracciare quell’estraneo con il camice bianco che mi ha appena dato la possibilità, finalmente, di chiedere aiuto.

Io invece raddrizzo le spalle, improvviso uno dei miei migliori sorrisi e gli dico:
“No, non creda, me la cavo benissimo. Appena questa cosa sarà passata, andrà ancora meglio.”
“Questa cosa non passerà”.
Non ha lasciato trascorrere più di cinque secondi dalla mia frase che subito ha dovuto precisare, ha dovuto puntualizzare e io mi chiedo perché non se ne poteva stare zitto.
“Ora le spiego tutto meglio ma è importante che lei capisca una cosa semplice: quello che ha non se ne andrà, non passerà. È una patologia cronica, deve imparare a conviverci.”
Adesso mi alzo e con ostentata naturalezza, come se fosse previsto e inevitabile, percorro i pochi passi che ci separano e gli stampo una sberla sulla sua capocetta e se poi mi gira brutto gli do anche un pizzicone sulla guancia da lasciargli il segno e solo a questo punto gli spiego, con calma e serenità, che lui non sa con chi sta parlando e che dovrebbe davvero pesare bene le parole prima di vomitarle fuori da quella sua boccaccia.

Io invece raddrizzo di nuovo le mie forti spalle, gli ripropongo l’ennesimo sorriso da ebete e gli comunico che:
“Non è possibile, mi creda. È solo un periodo, passerà. Io, poi, ho tanto progetti: un lavoro da portare avanti, la casa da finire, una famiglia da costruire, insomma io ho una vita da vivere, non so se capisce”.

SESTA PUNTATA

All’interno la casa sembra riservare ancora più sorprese: mentre educatamente aspettiamo in piedi all’ingresso, la nostra ospite fa il giro delle varie stanze, è apparentemente molto indaffarata ma non esce mai dalla stessa porta da cui entra il che non ci permette di avere un’idea precisa di come sia fatto questo posto. L’unica cosa certa è la scala di legno di fronte a noi, porta al piano di sopra ma a metà la vista è interrotta da una lunga tenda di velluto rosso che pende dal soffitto e che ci impedisce di capire dove vadano a finire quegli scalini.
Su ogni muro c’è della carta da parati un po’ rovinata e quasi del tutto ricoperta di cornici dorate che contengono vecchie foto sbiadite, filtra poca luce perché le poche finestre che riesco a scorgere sono coperte di pesanti tende scure.
Verrebbe voglia di esplorare questo posto da cima a fondo ma, ora che ci penso, verrebbe anche voglia di darsela a gambe levate e tornare in un posto che sia meno inquietante.
Troppo tardi, di nuovo.
“Seconda porta a destra, entrate pure e sedetevi. Il dottore sarà subito da voi.”
La dolce vecchietta fa cenno di sbrigarci, deve aver notato la nostra poca voglia di procedere.
La porta a vetri che apriamo ci introduce finalmente alla stanza del medico: è uno studio enorme e molto disordinato, ci sono libri ovunque, non solo sugli scaffali delle librerie e sulle mensole sbilenche ma formano anche delle torri che partono da terra e traballano ad ogni nostro passo. La scrivania, almeno credo che quella sia la scrivania, è interamente ricoperta di carte, u.f.o. vari (non riesco ad identificare tutto), due telefoni, una tastiera (e il computer dov’è?) e varie paia di occhiali.
Non sappiamo bene dove sederci perché anche le sedie sono occupate da libri e riviste e, con mio grande conforto noto che anche il lettino, su cui presumibilmente dovrei essere visitata, è sotterrato sotto varie pile di tomi.
“E ora? Cosa facciamo?Da dove cominciamo?”
Mi interroga il Mio Ometto.
“Dalla scrivania? Tu sbaracchi e io spolvero?”gli rispondo seria seria.
“Se almeno potessimo sederci!”
E, infatti, possiamo:
“Buttate tutto per terra e accomodatevi pure! Eccomi, scusate il ritardo. Piacere, sono il Dott. Tarlo”
“Salve, buongiorno, beh ecco..ops..scusi ha detto per terra? È sicuro? C’è una cartella clinica qua…anche quella? Ah va bene, come vuole. Sì grazie, siamo a posto”
Il mio dottore è un uomo alto, brizzolato e con un bel sorriso: assomiglia un po’ ad Henry Fonda adesso che ci penso anche se ha quell’aria da scienziato pazzo con gli occhiali sulle ventitré e i capelli scompigliati, tutto sommato mi ispira fiducia, almeno per ora.
Mi porge la mano e io gliela stringo: è una mano ruvida, callosa, sembra quella di un artigiano, non certo di un accademico.
“Allora, da dove vogliamo cominciare? Non mi dia i referti medici, no no, non so che farmene. Parli con me, mi racconti tutto, con parole sue.”
Oddio non vuole i referti, devo usare parole mie e ora come faccio? Non mi sono preparata, non ho studiato, non mi ricordo niente, nemmeno perché siamo qua!
“Ecco io, non saprei, insomma, cioè, vede è che…mi hanno bloccato le tapparelle e io non riuscivo ad alzarle e poi hanno costruito più scalini e le bottiglie d’acqua, ecco, finiamo per prendere sempre quelle che non si aprono e poi mi cade la testa nel piatto e devo fare i minipisoli. Ecco.”
L’ho detto tutto d’un fiato, sono riuscita a dire tutto quello che non volevo dire esattamente nel modo in cui non lo volevo dire.
Non ho coraggio di voltarmi e guardare il mio indispettito Compagno Adulto che di sicuro si starà vergognando di me ma mi sento addosso i suoi occhi pieni di delusione: cosa ho combinato?

Ho immaginato, allora, di guardare diritto di fronte a me senza avere paura delle conseguenze ed ho immaginato un estraneo che, al di là della scrivania, mi sorrideva e, facendo sì con la testa, mi diceva: “Ho capito, mi creda, ho capito tutto.”

QUINTA PUNTATA

VIA DEGLI ALBERI N°5
Dott. Ugo Carlo Tarlo Drosofila
- ENTOMOLOGO –

La targa è ovale, d’oro e posizionata su una colonnina, esattamente sotto al campanello.
“Ma che nome è Carlo Tarlo?” chiedo infastidita.
“Particolare, direi. Suoniamo?”
“Anche no.”
“Cosa vuol dire anche no? Non cominciare!”

Eccoci qua noi due, in piedi davanti al campanello, tremiamo un po’, lo sento, un po’ dal freddo perché siamo in mezzo ad un bosco e non filtra nemmeno un raggio di sole e un po’ dalla paura di quello che ci aspetta.
Suona tu, no suono io, no dai suona tu, smettiamola tanto ho già suonato e il cancello si apre.
Mi guardo intorno e vedo tutto questo: la casa ha tre piani, sembra altissima, è bianca con gli infissi color glicine e varie torrette da cui esce un sottile fumo nero (ma quanti caminetti hanno?).
La facciata è quasi del tutto occupata da un porticato di colonne avvolte da un’edera verde e rigogliosa mentre alle finestre troneggiano cascate di gerani (sento già la voce di mia madre: hai chiesto che fertilizzante usano?)
La porta d’ingresso è bianca e massiccia ma quello che mi colpisce è l’enorme lampadario che pende dal soffitto del portico: è molto elaborato e color oro come le maniglie dei serramenti, ne vorrei uno a casa mia. (mentalmente annotato)
Il vialetto che conduce all’ingresso è piastrellato e l’erba che lo costeggia è bassa e molto curata, c’è un profumo fresco di prato appena rasato; ci sono aiuole colorate un po’ ovunque, ognuna circondata da una sottile recinzione verde.
Siamo immersi nell’osservazione di questo piccolo angolo di paradiso quando scorgo, in fondo al giardino, un movimento e un’ombra:
“Ho visto qualcosa muoversi! Hanno un cane! Oddio corriamo dentro! Ma il cartello non c’era?”
Nel giro di pochi attimi sono già alla porta d’ingresso e, presa dal panico, sto tentando di forzare la maniglia ed aprirla.
Mi giro un istante a cercare conforto e protezione nel Mio Accompagnatore e lo vedo beato e pacifico, con i piedi immersi nel soffice tappeto d’erba, ad indicare qualcosa a sinistra del porticato:
“Vieni, è bellissimo.”
“E’ un cane, so già come è fatto. Se fai così poi ti viene vicino, per l’amor di Dio!”

“Non è un cane, vieni qua dove sono io: è bellissimo ti dico.”
Faccio pochi passi, calpesto anche io il praticello così ben curato e con lo sguardo seguo la direzione indicata: quello che vediamo è davvero bellissimo ed è anche insolito, surreale, quasi fiabesco.
Davanti a noi c’è un pavone: cammina dentro un recinto e la poca luce che filtra tra gli alberi riflette sul piumaggio di mille colori e sulla ruota che si porta orgogliosamente dietro come un trofeo.
E’ enorme, non so perché ma non me lo immaginavo così grande e imponente, a dire il vero fa un po’ timore.
O forse quello che ci inquieta di più è il fatto che di pavoni ce ne sono due, anzi tre, no, no, ce ne sono sei!
“Siamo nel giardino di un tizio che ama gli insetti e ha una casa con almeno cento caminetti più un recinto con sei pavoni. Mi porti via per favore?”
Piagnucolo aggrappandomi al braccio del Mio Prode Eroe.
Troppo tardi:
“Buonasera, vi stavamo aspettando. Accomodatevi pure!”
Una dolce vecchietta in ciabatte e grembiule da cucina è sulla soglia di casa e ci fa cenno di entrare.
Come rifiutare?

QUARTA PUNTATA

Sono seduta sulla mia poltrona preferita e guardo la televisione che è spenta e che quindi, almeno credo, si chiama “televisore”.
Il Mio Ometto incalza:
“Perché non gli hai chiesto di più? Cos’è questa storia che devi andare da un entomologo? Non sei mica una bestia!”
“Non credo, non ancora almeno. C’è qualcosa di kafkiano in tutto ciò, non credi?”
No, non crede e invece ora ha fretta:
“Siamo in ritardo per la visita. Vado a prendere la macchina, guido io.”
Ho immaginato, quindi, di salire in macchina e di sedermi al lato del passeggero, poi ho immaginato di voltarmi, sentire scricchiolare il collo, guardare l’autista e infine dirgli: andiamo dall’entomologo.
Non solo, ho anche, forse, creduto di pensare a questo:
“C’è qualcun altro là fuori che ha quello che ho io, qualunque cosa sia?”
Quindi la strada scorre e io cerco di capire se quest’idea mi consola o mi fa stare peggio: da un lato il fatto che questa malattia esista davvero, che altri l’abbiano e che esista uno specialista che la cura, la rende molto reale e io non sono certamente pronta ad accettare la mia nuova condizione.
D’altra parte però, se mi fermo a pensarci, l’idea di non essere sola, che ci sia qualcun altro con cui scambiare notizie, consigli e paure, non dev’essere male, anzi mi è quasi di conforto.
E mi capita, forse, di pensare a quanto io sia stanca, soprattutto moralmente e mi sento, forse, stupida perché so che sentirsi già stanchi all’inizio di un lungo viaggio, è, appunto, da stupidi e non so consolarmi e non so trovare una scusa.
Tutti questi pensieri mi frullano in testa e fanno tanto rumore così quando il Mio Paziente Autista mi chiede se voglio un po’ di radio, gli rispondo distrattamente:
“Ecco sì per favore, abbassa il volume perché mi scoppia la testa.”
Insiste:
“Hai pensato a cosa dirgli?”
No, invece ora penso al fatto che una volta gli autisti erano muti così i passeggeri potevano badare ai fatti loro in santa pace senza dover per forza razionalizzare ogni folle parto della mente.
“Sì certo. Potrei dirgli, per esempio, che sto…male? Eh che ne pensi?”
Io gli rispondo così.

“Devi descrivergli i sintomi, credo. Devi pensare ad un discorso, una sorta di elenco con la descrizione di quello che ti sta capitando. E poi non vorrai andartene con il dubbio di aver tralasciato qualcosa vero? Ah io non ho la minima intenzione di tornare per una seconda vista, no no!”
Nemmeno a me sfiora il pensiero di rifare questa lunga e tortuosa strada e rivivere queste spiacevoli sensazioni che ora includono, grazie alle parole del Mio Autista, la paura di dimenticare di dire qualcosa al dottore.
Avrei dovuto fare un elenco, qualche appunto o almeno avrei dovuto informarmi di più per poter fare qualche domanda ma no, non ho fatto niente di niente e ora: panico!
C’è ancora del tempo prima di arrivare (così dice il navigatore) e posso rimediare se voglio:
1)dolori alle articolazioni (io avrei fatto un elenco completo: ginocchia, polsi, gomiti, caviglie…ma il dottore, zittendomi, mi ha informato che “articolazioni” le riunisce tutte);
2)febbre (e qua ci capiamo, no?)
3)debolezza muscolare (dirò queste due parole con decisione e fermezza, in modo che risultino assolutamente sufficienti a capire cosa intendo anche perché altrimenti dovrò fare l’imbarazzante esempio di quando mi cade la testa in avanti mentre guardo la tv o di quando, durante la cena, mando giù bocconi interi perché non ho la forza di masticare. Ecco, eviterei queste umiliazioni)
4)stanchezza generale (qua la faccenda si complica, chissà se devo dirgli che durante la giornata devo fare dei “minipisoli” altrimenti la sera mi “spengo”?)
“Se gli dico “minipisoli” lui capisce?”
“Perché devi sempre usare questo linguaggio da cartone animato? Digli che devi fare delle brevi dormite durante la giornata altrimenti…”
“Mi spengo!”
Lo interrompo entusiasta: il puzzle si sta alla fine componendo!
“Ti spegni! Cosa vuol dire che ti spegni? Parla di astenia, di stanchezza, difficoltà di concentrazione e del fatto che la notte poi dormi anche 12 ore, non ci crederà mai perché non è umanamente possibile, ma tu devi farglielo presente. Insomma parla come un adulto per piacere!”
Siamo un po’ nervosetti, il Mio Autista ed Io.
Fatto sta che mi sono già dimenticata l’elenco e nel frattempo mi sono venute in mente mille altre cose ma non so come tradurle in un linguaggio da adulto.
“Per esempio come gli dico quella cosa delle tapparelle la mattina?”
“Gli dici che appena alzata dal letto non hai la forza muscolare di alzare le tapparelle di camera tua! Mica è difficile! Sentiamo, tu come glielo avresti detto?”
“Un po’ come l’ho detto a te quella volta: qualcuno deve aver manomesso il meccanismo e io non riesco a sbloccarlo!”
“Aggiungi la paranoia tra i sintomi e posso già immaginare quale sarà la diagnosi!”
“E cosa mi dici degli scalini dal garage al portoncino? Quello che succede non posso essermelo inventato!”
Ah ah! Teoria inconfutabile.
O forse no:
“Nessuno ha, nottetempo, costruito degli scalini in più dal tuo garage alla porta d’ingresso, per l’amor del cielo! A te sembrano di più perché fai fatica a fare le scale!”
Era meglio se venivo da sola.

Ho immaginato di guardare fuori dal finestrino e non riconoscere più il panorama, ho anche, forse, visto tanti alberi alti e tristi che avrei sempre, lo so, legato a queste spiacevoli sensazioni.

“Ho i referti degli esami. Parleranno loro per me. Così tu non ti vergognerai dei quello che dico e io non verrò rinchiusa in un ospedale psichiatrico. Felice?”
“Ci siamo. Siamo arrivati, credo.” L’Autista ricontrolla il navigatore satellitare ma qua non funziona (ma dove mi hai portato se non funziona nemmeno il navigatore?), siamo fuori dal mondo, accerchiati dalla natura incombente e alla ricerca della casa di un entomologo.

TERZA PUNTATA

Ora sono di nuova sola così posso, purtroppo, guardare i fogli che stringo in mano e mi viene in mente che ho scelto un venerdì per andare a fare questi benedetti esami, è venerdì santo precisamente e la domenica di pasqua, durante un breve giro in bici, sono caduta.
La cosa strana e imbarazzante, è che sono praticamente caduta da ferma! Ho provato a mettere giù la gamba ma ha ceduto e non so perché il mio corpo faccia un po’ quello che gli pare ultimamente, questa cosa mi irrita parecchio.
Non è stato piacevole raccontare all’infermiera del pronto soccorso che la caviglia gonfia è dovuta ad una banale caduta dalla bici: lei non ci crede e, prima di scriverlo sul referto, me lo chiede due volte:
“Ma qualcuno le è venuto addosso? Ma andava veloce? Ma è sicura di aver fatto tutto da sola?”
Sì sono sicura, va bene? Sono un’imbranata cronica, va bene? Ho le gambe mollicce, va bene?
Si fidi, no?
Non ricordo neanche quando sono cominciati i dolori, so che ci ho messo qualche mese prima di decidermi ad andare dal dottore a dirgli che avevo bisogno di un ricostituente, di qualche vitamina o sali minerali perché stava diventando tutto un po’ troppo difficile: dall’aprire una bottiglia d’acqua, al tirare su le tapparelle la mattina, al lavarmi i capelli sotto la doccia.
Adesso ho in mano i risultati e sono seduta nella sua sala d’aspetto, reggo quei fogli come se avessi paura di perderli e mi rendo conto per la prima volta che forse è importante per me sapere cosa davvero mi stia succedendo.
Ho la mente così affollata di pensieri, voci e terrori che il tempo passa veloce, non mi serve nemmeno leggere una rivista per ingannare l’attesa, non ascolto i fastidiosi pettegolezzi di cui si riempiono la bocca gli altri pazienti: non me ne frega niente!
Ho il respiro un po’ affannato e mi rendo conto che sono in piedi molto prima che sia il mio turno, percepisco lo sguardo di alcune persone su di me, forse credono che voglia saltare la fila e non sanno che l’unica cosa che realmente vorrei fare è mollare gli esami lì e scappare.
Non c’è molto da dire ed è inutile girarci intorno: ho paura.
E’ una di quelle paure che ti bloccano il cervello e non ti danno l’opportunità di ragionarci sopra, voglio scappare ma voglio sapere, voglio rimanere ma non voglio che il dottore veda i miei esami.
Sono in tilt ed è in questa condizione che consegno il referto al medico, ovviamente ci mette una vita a leggere tutto e nel frattempo riesco a farmi i solchi con le unghie nei palmi delle mani e io non lo so ancora ma mi aspetta un futuro di solchi nelle mani.

“Non va bene.”
Sospiro.
“Non va affatto bene”
Sospiro di nuovo.
Alza la testa e mi guarda:
“C’è qualcosa che non va!”
Deglutisco.
E aspetto.
Aspetto che mi dica quanto è grave, aspetto di scoprire la natura umana di questo dottore: quanto sia un tipo apprensivo, uno di quelli che, per un raffreddore, prescrivono l’antibiotico a largo spettro e ti angosciano l’esistenza con scenari apocalittici sulle temibili conseguenze di un’influenza mal curata.
Quindi mi chiedo: sei un fifone, caro dottore?
Sei un pessimista? Forse un catastrofista?
O vedi la vita in rosa, sempre e comunque?
Dentro di me io spero che tu sia un vigliacco, un codardo che si spaventa per una stupidaggine perché in fondo è quello che io, in questo momento, vorrei avere: una stupidaggine.

“Ci vuole uno specialista”
Alla fine hai parlato.
Oh signore fa che non sia un oncologo, un ematologo o comunque uno di quelli che guardandoti in faccia sanno dirti la data precisa della tua morte.
“Ho il nome di un ottimo entomologo”
Oh Dio grazie, VIVRO’!



“Ha detto ENTOMOLOGO?”
“Sì sì, ah la ricerca ha fatto passi da gigante ultimamente!”
Passi da gigante, come no.


Il resto della conversazione è buio, non ricordo cosa sia successo, come io abbia reagito, semmai abbia avuto la prontezza di spirito di reagire ma, ripensandoci ora, credo di essere stata zitta, di aver annuito e sorriso come mi riesce tanto bene in situazioni come questa in cui, molti altri, farebbero domande sensate, richiederebbero utili informazioni o, per lo meno, ammetterebbero di avere bisogno di capire cosa sta succedendo.
Così me ne esco dallo studio del mio medico con un foglietto su cui è scritto a chiare lettere:
“Richiedesi visita entomologica urgente”
E io non so se essere più spaventata dall’ultima o dalla penultima parola.

Quello che so è che ho la testa dolente, mi tremano un po’ le gambe e sento che in mano ho un biglietto per una giostra sconosciuta su cui, anche se non ne ho voglia, mi tocca salire.

SECONDA PUNTATA

Pensieri interrotti dal Pinscher nano che, inaspettatamente, rientra:
“Ehm senti Cosa, che hai? Una giornata shit?”
Shit? Cosa cavolo vuol dire una giornata SHIT? Ma come parla?
“No, niente di che, sul serio, ora mi passa.”
“No perché anche a me capitano giornate così, magari non PERIODIcamente come a voi, cioè a te, ecco. La cosa migliore è non pensarci e tirare dritto: il lavoro è la miglior cura!”
Ma va, non l’avrei mai detto.
“Davvero sto bene, non è quello che pensi. È che ho delle cose…”
“Le tue cose! Sì sì l’avevo intuito!”
“No, non cose come intendi tu, ho solo delle cose da fare.”
Oddio non riesco più a guardarlo in faccia, anzi nemmeno nella sua direzione ed è piuttosto difficile perché occupa gran parte della stanza. Abbasso lo sguardo ma ho ancora tra le mani i risultati degli esami e così rischio di rimettermi a piangere allora mi volto verso il pc ma è ancora spento, quindi vago in cerca di un appiglio: tasca del cappotto, maniglia della porta, termosifone, cavallo dei suoi pantaloni. No! Ho davvero lo sguardo fisso sul suo…non voglio pensarci, ho le guance in fiamme, sento la vena del collo che pulsa e non so come uscirne.
“Ti serviva qualcosa?” chiedo senza riuscire a distogliere lo sguardo ma cercando di sembrare perfettamente a mio agio.
“Sì in effetti. Mi servono i resoconti e mi servono asap
“Che immagino non significhi: “Attendo Speranzoso, Almeno Provaci!”, giusto?”
(E’ che odio quando usa gli acronimi: l’unica sigla che io conosco è TVB e mi sono accorta solo recentemente che il mio cellulare la trasforma automaticamente in UVA, il che vuol dire che negli ultimi tempi ho spedito vari grappoli di succosi acini a ignari nominativi che ho in rubrica, poveri loro.)
“Direi di no”
e se ne va.
Diomio, la conversazione più imbarazzante della mia vita: d’ora in poi andare dal ginecologo sarà una passeggiata.

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