DICIANNOVESIMA PUNTATA

"Non posso farcela."
"Certo che puoi farcela."
"No, davvero. Non fa per me. Non da sola comunque e tu non puoi venire, ma ti pare? No, No: non posso farcela."
Il Mio Ometto In Poltrona abbassa il giornale e mi guarda:
"Sì sì, come no. Ciao e divertiti."
E basta?
Questo è tutto l'incoraggiamento che ricevo?
Così non va.
"Mi accompagni alla fermata dell'autobus?"
"Stai scherzando, vero? Dì ma quanti anni hai?"
Ahhh, è il "momento-antipatia".
"Se devi fare così allora ci vado da sola, sia chiaro!"
Eh scusa, se deve fare il fastidioso allora è meglio che se ne stia casa, no?
(che poi è quello che lui voleva fare fin dall'inizio. Ma lasciamo stare.)
"Vabbè allora vado. Magari ti chiamo quando arrivo, che dici?"
"Ma arrivi dove? Devi solo andare un po' in periferia, saranno sì e no venti minuti di autobus!"
"E' l'ultima fermata, capisci? Il capolinea! Ti rendi conto? Sarà in mezzo al nulla! Com'è che da quando mi sono ammalata tutti i posti sono in mezzo al nulla, eh? Com'è 'sta storia?"
"Sarà che appena svolti l'angolo di casa tua è già "in mezzo al nulla"? Sarà che sei paranoica e se vedi quattro alberi verdi ti prende il panico?"
Ahhh, non era finito il "momento-antipatia".
"Ok, vado ma non mi piacerà, lo so già, che sia messo a verbale: non mi piacerà! Ultima chiamata, sei sicuro di non voler venire? No, dal tuo sguardo direi di no. Poi se mi perdo è colpa tua."
E' che non so cosa aspettarmi da queste persone, da questa gente nuova che non conosco e io non sono mai stata brava con gli estranei : ho serie difficoltà ad inseririmi in gruppi già strutturati, non c’è niente da fare, è sempre stato così.
Per esempio arrivo al corso di ballo quando è già cominciato e tutti si conoscono e io non riesco a fare amicizia, men che meno a trovarmi un compagno di salsa.
Oppure entro nella sala d’aspetto del medico ed è gremita di gente che chiacchiera amichevolmente da almeno un paio d’ore, mi ritrovo così a disagio e finisco per fare strane espressioni di insofferenza ed attirarmi gli sguardi di tutti, tanto per isolarmi ancora di più.
Non riesco ad inserirmi nemmeno sui gruppi di Facebook in cui, veramente, non è che ci sia poi un granchè da fare: devi solo iscriverti, leggiucchiare qua e là e magari postare qualcosa ma io no, non ce la faccio e mi rendo conto che al massimo potrei crearne uno io di gruppo, uno nuovo di zecca.
Però deve essere qualcosa a cui tanta gente vorrebbe partecipare, qualcosa che rappresenti tutti, altrimenti non si iscrive nessuno e io mi deprimo.
Dovrei scegliere un titolo generalista, un argomento che più o meno tocchi ogni persona a cui chiederò di iscriversi, qualcosa tipo:
“Quelli che almeno una volta nella vita hanno starnutito.”
o
“Per chi la mattina si lava i denti con lo spazzolino.”
o
“Quella volta in cui…”
E ognuno può riempire la frase a piacimento!
Io sarei la creatrice e fondatrice del gruppo, detterei le regole e modererei le inevitabili, lunghissime discussioni che nascerebbero dall’interessantissimo titolo che ho dato al gruppo che nel giro di brevissimo tempo sarebbe diventato famosissimo in rete e tutti vorrebbero iscriversi e farne parte e io avrei una lunghissima lista d'attesa di persone interessate a far parte del mio bellissimo e quotatissimo gruppo! Come no.

Ecco più o meno i miei sogni proibiti si sviluppano così.
La realtà invece è che so già che arriverò in quel circolo, mi chiederanno se so qualcosa di patchwork e io, ignorante e ottusa, ammetterò che non ne so niente e che l'unico motivo per cui sono arrivata fin lì è per vedere come sta la gente che, come me, ha un insetto che gli scorre nelle vene.
"Non posso farcela!" dico stupidamente ad alta voce mentre sto immobile di fronte all'autista che, sorridendo, guarda la destinazione sul mio biglietto e mi dice:
"Siediti vicino a me, poi ti passa, tranquilla. E' gente in gamba quella lì, vedrai che una mano te la danno. E poi è ora che tu capisca un po' su che giostra sei salita, no?"

DICIOTTESIMA PUNTATA

Ho male e così mi tocca farmi i solchi nelle mani stringendo i pugni e anche stavolta ho dimenticato di limarmi per bene le unghie.
Me ne scordo quasi sempre, soprattutto quando devo andare a fare esami dolorosi e ogni tanto anche un prelievo di sangue è un problema: sono una di quelle persone, ce ne sono tante, a cui le infermiere non trovano le vene e che quindi, ad ogni tentativo di buco, deve tenere i pugni stretti e, possibilmente, mordersi le labbra evitando inopportune bestemmie.
Dovendo fare prelievi ogni due settimane ho conosciuto una gran varietà di personale infermieristico e si sa che ogni individuo è una realtà a sé ma tutti si possono riunire sotto un grande comune denominatore che si esplica nella minacciosa frase:

Gliela trovo ben io la vena!
Le mie proteste e i miei suggerimenti risultano sempre invani e cadono nell’oblìo: io lo so che finirò per avere il braccio tatuato di ematomi e che l’ultima spiaggia è sempre il doloroso dorso della mano, ma nessuno mi ascolta e invece tutti si sentono dei prodi Re Artù che, nel paese dei contrari, lottano per rificcare la spada dentro la roccia.
E io li lascio fare, così, quando l’ago è finalmente nella vena che avevo indicato io mezz’ora prima, stremata dal dolore mi congratulo per l’ottimo lavoro riuscito in breve tempo; questo perché ho imparato una cosa molto importante: un infermiere armato di siringa e con l’orgoglio ferito è davvero, davvero, molto pericoloso.

Così, quando l'entomologo mi ha suggerito, con quel suo modo subdolo ("Veda lei…"), di cercare un gruppo di supporto psicologico che mi aiutasse a superare il trauma della diagnosi, ad affrontare la malattia e a tollerare la trafila diagnostica, io mi sono data da fare perché sono ubbidiente (leggi: vigliacca) e mi fido di lui (leggi: vigliacca).
Durante la ricerca ho incontrato varie opportunità e ho dovuto fare delle scelte.

Ho cercato di capire i miei limiti e fino a dove potevo spingermi.

Alcuni esempi:

1)Gruppo di supporto per malati cronici :“Accetta l’animale che è in te”
In un certo senso è corretto ma è l’imperativo di accettare che non mi soddisfa: io non sono ancora pronta.

2)Associazione onlus : “Insetto lui, Insetto io, Insetti noi”
Sì ok, potrebbe anche andare...ma no: insetti sarete voi! Io sono solo, momentaneamente, indisposta.

3)Circolo di patchwork: “U.C.T.D. : Un consiglio ti do.”
Non so bene cosa c’entri il patchwork ma dal nome direi che è gente realista e tanto, tanto paziente.


Ora devo solo scoprire dove sono e come arrivarci ma per oggi ho fatto pure troppo, magari ci penso domani.
Tanto ho tutta la vita davanti, no?

E' da un po' che qualcosa non va nell'esame delle urine ma ammetto di non avergli dato mai importanza: sono stata addestrata dall'entomologo a cercare asterischi e di quelli non c'è traccia, ci sono invece dei "più" e delle sbarre con dei numeri, ma nessun allarmante asterisco e così io non mi sono, appunto, allarmata.
Poi, alla fine, è stato tutto più chiaro: un valore, in effetti, è sballato.
Il medico che ha controfirmato il referto ha scritto sotto: OK!
Ma come può essere OK un 102 quando il massimo è 18?
Da quel momento è cominciata la ricerca della causa e tutti (medici e infermieri) vogliono un po’ della mia pipì e così io piscio, diligentemente, in provette, vasetti e bidoncini, almeno una volta a settimana.
C’è stato poi un giorno in cui la mia pipì è diventata particolarmente richiesta e allora tutto è diventato alquanto folle, proprio come il resto della malattia.
Era un sabato, me lo ricordo perché, anche se sono nullafacente a causa della mia salute ballerina, sento il fine-settimana come un traguardo a cui anelare: in fin dei conti di domenica i laboratori di analisi sono chiusi e io, almeno per quel giorno, sono al sicuro.
Mi sono alzata presto perché volevo sbrigarmela entro la mattinata e consegnare il barattolone in tempo per godermi il resto del tempo in santa pace.
Con questo spirito mi presento allo sportello e con la tipica faccia da ebete di una che con la testa è già distesa sul divano a bere un tè verde e a leggere un libro, porgo il mio “bagaglio liquido” all’omino vestito da gelataio che sta dietro al bancone.
“Questa è una e l’altra dov’è?”
Tipico umorismo da infermiere, ormai lo conosco bene.

“Ehm, l’altra COSA, scusi?”
“L’altra provetta signorina, io qua leggo che me ne doveva portare due, vede?

Vabbè non importa, PER QUESTA VOLTA, vada a farla adesso, il bagno è in fondo a sinistra.”
Tralascio i lunghissimi due minuti in cui rimango a bocca aperta, incapace di formulare un qualsiasi pensiero intelligente, mentre il gelataio mi indica insistentemente la fine del corridoio.
Devo di nuovo fare pipì! Ma ne ho appena fatti due litri e non mi viene perché dopo averla fatta non ho più bevuto nulla, poi io odio farla nei bagni pubblici e da quando la devo fare a comando non mi viene più. A casa ho il trucco di aprire tutti i rubinetti, dalla cucina al bagnetto al bagno grande e così dopo qualche minuto mi viene. Sono attanagliata dal senso di colpa nei confronti dei bimbi africani che muoiono di sete, ma almeno mi viene!
Insomma mi dirigo mogia mogia verso la toilette quando mi squilla il cellulare: è l’altro laboratorio di analisi in cui faccio parte degli esami, hanno bisogno urgentemente di un campione di urina, i risultati dell’ultimo test sono allarmanti e vogliono ripeterli subito.
E quindi eccomi qui: sono seduta sul pavimento del corridoio (sporco e infetto, lo so, me lo sento) di un ospedale, con in mano una provetta in cui devo fare una pipì (che non mi viene) mentre dal cellulare esce la voce di un’infermiera impanicata che mi spiega come il primario, a sua volta impanicato, voglia urgentemente un campione della mia pipì (che continua a non venirmi) per escludere una diagnosi, per me, infausta.
Appena riesco ad interrompere quell’isterica che c’è dall’altra parte del filo cerco di spiegarle che almeno per oggi, la mia pipì è, per così dire, prenotata dall’altro laboratorio ma lei ribatte, felice e sollevata, che non le serve la prima pipì della giornata ma la seconda!

Ma pensi lei che fortuna signorina: può ancora darcela!

Dopo aver spiegato alla mia delusa interlocutrice che anche la seconda pipì della giornata è, con mio profondo rammarico, già venduta ad un miglior offerente, mi sento dire:
“Be' ne faccia un po’ in due provette no? La aspetto entro un’ora. Grazie e arrivederci!”
A questo punto, ammetto la mia debolezza, mi verrebbe un po’ da piangere ma prontamente mi ricordo che non è proprio il caso di sprecare la minima quantità di liquido ancora presente nel mio corpo, altrimenti quelle due provette non le riempirò mai! Così mi faccio coraggio e mi alzo da terra, anche perché l’infermiere-gelataio sta tamburellando nervosamente sul bancone e mi guarda impaziente: in fin dei conti, anche per lui è sabato e vuole andarsene a casa.

Uno degli effetti collaterali dell’avere l’esame delle urine come unico metodo diagnostico per monitorare una patologia è che finisce per sembrarti strano fare pipì nel wc perché la fai talmente spesso nei barattoli, anche per giorni interi, che ogni volta che hai lo stimolo devi fermarti a pensare: ok, e oggi dove devo farla?
E questo toglie tutta la spontaneità che il bisogno fisiologico porta con sé.
Un giorno, colta da un' improvvisa necessità proprio mentre ero intenta nell’ennesima gara truccata di macchinine con mio nipote, me ne sono uscita con un :

“Oh no, devo di nuovo fare pipì! Scusa tesoro, ci vediamo dopo.”
A cui lui ha risposto con un intelligente: “Perché non ti metti il pannolino così la fai addosso e possiamo continuare a giocare?”
Anche quella prospettiva mi sembrava migliore del cosidetto “provettone” da due litri che mi porto in giro. Non è che con “in giro” io intenda i centri commerciali o le mostre d’arte, dico solo che se la domenica mia madre mi invita a pranzo io arrivo con la mia…pipì da asporto così non la devo trattenere fino al mio rientro a casa e posso bere quanto voglio!

E’ tutto abbastanza triste e imbarazzante, lo so, ma sono una che si è sentita dire “ora si spogli” in una stanza di tre metri per due affollata di studenti di medicina quindi, signori, ora come ora non mi imbarazza più niente!
Non so cosa mi abbia dato il coraggio, quel giorno, di sfilarmi pantaloni e maglietta davanti a quegli estranei: scartando l’incoscio desiderio di diventare una spogliarellista perché non mi ci vedo proprio (non ho il senso del ritmo, per dirne una), teniamo presente che in quei giorni la soglia del dolore che provavo aveva davvero raggiunto limiti inesplorati e, per fortuna mia, agivo quasi in automatico davanti a dei camici bianchi (dottori, ma anche macellai e gelatai…).
Non ringrazierò mai abbastanza il barbuto medico che mi ha quasi subito iniettato un miracoloso siero dalle proprietà strabilianti: nel giro di pochi minuti non ho più provato imbarazzo per le mie gambe evidentemente non depilate e per la biancheria non del tutto presentabile e avevo solo un vago ricordo delle parole dell’entomologo: “Le faranno una piccola operazione al braccio”. Parole a causa delle quali non avevo pensato che mi avrebbero chiesto di levarmi i pantaloni.

Il resto del tempo, trascorso a farmi armeggiare con bisturi e pinzette nella carne viva tagliuzzando pezzi di muscoli, ce l’ho ancora ben chiaro in mente visto che il “miracoloso siero” aveva una durata molto breve e visto che nessuno dei presenti era in possesso, o comunque volesse generosamente condividere con me, qualsiasi tipo di sostanza stupefacente…quando si dice: la malasanità…

SEDICESIMA PUNTATA

Nel giro di pochi giorni si sono riempite parecchie pagine di teorie, le più disparate a dire il vero.
Volendo fare una (inutile) statistica, direi che sono riconoscibili gli interventi di autori "over 50" per i loro continui riferimenti a fattori meteorologici.
La maggior parte delle volte, però, sono contrastanti: se un giorno il sole mi è amico e fautore del momentaneo benessere, l'indomani diventa causa scatenante dei più insopportabili dolori.
C'è, poi, chi attribuisce i miei malesseri a fattori esterni (parecchio esterni direi) come un risultato di calcio o la caduta di un governo.
Insomma, come direbbe il mio entomologo:

Unanimi, Con Teorie Diverse

Io, nel frattempo, mi godo gli alti e bassi della malattia e leggo, divertita e intenerita, gli sforzi di chi mi vuole bene, per dare un senso a tutto ciò.
Non che io ignori il fatto che, in fondo, non c'è un senso a tutto quello che sta accadendo.
A volte, però, cercare un significato aiuta a mantenermi lucida e a non scivolare in un vortice che mi porterebbe a dire cose tipo:

Vi odio, vi odio tutti voi che la mattina vi alzate e potete camminare senza dover aspettare che vi si sblocchino le caviglie.
Voi che correte da mattina a sera e poi ci mettete poche ore per recuperare e ripartire.
Voi che potete decidere all'ultimo momento di partire per il week-end senza dover pensare a come trasportare il frigo delle medicine.
Vi odio perchè di tutte queste fortune e di mille altre non vi rendete conto e vi odio perchè io, fino a poco tempo fa, ero come voi.

Ero tra quelli seduti in prima fila e il riflettore mi inquadrava a volte rendendomi protagonista per pochi minuti.
Non saprei nemmeno dire chi mi sedesse accanto perchè ero troppo concentrata a guardare davanti a me e a partecipare allo show, tanto ero sicura che nessuno mai mi avrebbe tolto la poltrona in prima fila.
Invece un giorno è arrivata la maschera e, puntandomi la torcia in faccia, mi ha sussurrato:
"Signorina, questo posto non è più suo, le devo chiedere di spostarsi."
"E dove?" Ho domandato io incredula.
"Più indietro, signorina, molto più indietro."
"In seconda fila, signora maschera?"
"No, signorina, molto più indietro. Venga, signorina, venga con me."
E io ho seguito la signora maschera che mi ha portato verso l'ultima fila della platea e poi su in prima galleria e ancora in seconda e poi:
"Si accomodi pure in piccionaia, signorina."
Così mi ritrovo incastrata su una scomoda e stretta poltrona, ho le ginocchia in bocca e lo spettacolo non riesco più a vederlo.
Quassù fa buio, non ci arrivano i riflettori e le risate della gente sono lontane.
Allora non mi resta da fare altro che guardarmi in giro per scoprire chi mi è seduto accanto.
Scopro così visi sorridenti incastonati in corpi scomodi e persone gentili che cercano di farmi posto perchè mi vedono a disagio e spaurita.
Chissà se, mi chiedo, anche loro, in fondo al cuore, sperano di ritornare in platea un giorno.
Metaforicamente parlando, s'intende.

QUINDICESIMA PUNTATA

Il mio divano: comodo, fresco, morbido e profumato.
Ho un cuscino sotto la testa, uno sotto le gambe, la copertina dalle spalle ai piedi e ho spento il cellulare.
Non ho nemmeno tolto le scarpe e ho ancora la borsa a tracolla ma non me ne frega niente perché sono finalmente a casa mia, di nuovo, e nessuno, ripeto, nessuno può smuovermi da qua.

DIN DON

"Signorina c'è un pacco per lei. Non scenda, salgo io. A che piano è? Mi ci voleva proprio un po' di esercizio!"
Il fitness-postino ha optato per le scale, buon per lui.
"Ah che bella corsa fin quassù e con questo pacco poi, ha visto che grande e quanto pesa? Glielo assicuro che pesa. Ma stava dormendo? Con le scarpe? Contenta lei! Firmi qui e la lascio tornare da Morfeo."
Il pacco è effettivamente molto pesante e con fatica riesco a trascinarlo in sala; l'etichetta del mittente dice:
"Residenza Dott. Tarlo"
Oh no, l'entomologo, cosa mai mi avrà spedito?
Non possono essere tutte medicine!
E se invece fossero medicine?
Ma le devo pagare?
Ma no, non sono medicine.
Saranno libri, sulla malattia magari, sulla bestia schifosa.
Ma è un regalo?
Diocheansia.
Mi ci vogliono parecchi minuti prima di rendermi conto che posso semplicemente scartare il pacco e scoprire cosa contiene.
All'interno ci sono due confezioni: in una trovo varie parti di un ignoto marchingegno e le istruzioni per montarlo.
Ci metto un po' (ok, ci metto quasi due ore) ma alla fine riesco a costruire un leggìo di legno su cui, immagino, andrà appoggiato l'altro contenuto del pacco: un grande libro scuro.
La copertina è rigida e pesante con intarsi che convergono al centro su cui c'è una piccola placchetta d'argento che dice:

"IL LIBRO DELLE TEORIE"
Le pagine all'interno sono tutte bianche e io non capisco cosa devo farci con questo ingombrante...diario? Sarà un diario? Io non sono una tipa da diario!
No, no, non io.
E che ci scrivo? Ogni giorno, poi, figuriamoci!
Come se uno avesse tempo di...ah ma c'è anche un biglietto.
Altre istruzioni?

"Mia cara,
ho più volte ripensato alla nostra chiacchierata e ai cambiamenti che ti aspettano d'ora in avanti.
Devi sapere che la tua vita sarà diversa e che con nuovi occhi guarderai al mondo e il mondo guarderà a te. Sono sicura che tu sia circondata da tante persone che ti vogliono bene e che, a modo loro, vorranno esserti d'aiuto. Starà a te imparare a gestire le loro dimostrazioni d'affetto.
Usa questo libro per fare un po' d'ordine e per lasciare alcune cose non dette.
Il silenzio è fonte di energia e Udire Contrastanti Teorie, Disorienta.
La Signora dei Pavoni."

Leggo e rileggo ma non capisco: oltre ad un tenero sentimento di gratitudine non riesco a provare altro perchè non colgo il vero significato delle sue parole.
Ora il libro è lì al suo posto sul leggìo e la prima pagina aspetta di essere scritta ma io non so cosa farci.

DIN DON

"Sono mamma, salgo."
Ah ecco la mamma, menomale, lei di sicuro avrà una spiegazione.
"Ciao tesoro, come stai? Sembri stanca."
"sai com'è: i dolori, la febbre, oggi sto peggio del solito, chissà perché."
"Lo so io perchè! E' ovvio, dev'essere il tempo, questa umidità o il sole, ecco sì il sole e poi di sicuro anche..."
"Ferma lì, non dire altro, non parlare più. Vai in sala, io intanto ti prendo una penna..."

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